Si chiamano sorveglianza attiva o vigile attesa e rappresentano alcune delle possibili strategie da mettere in campo di fronte a una diagnosi di tumore della prostata.
Non si tratta di un vero e proprio trattamento, anzi, questi approcci sono caratterizzati proprio dall’assenza di trattamenti per concentrarsi su – come dicono i nomi stessi – un’attenta sorveglianza della malattia attraverso esami specifici e osservazione di segni e sintomi1,2.
A chi viene prescritto questo tipo di approccio? È davvero sicuro “aspettare” quando si riceve una diagnosi di tumore della prostata? Ci sono effetti collaterali?
A tutte queste e ad altre domande cercheremo di rispondere grazie all’aiuto dei dati più recenti e delle informazioni fornite dagli esperti.
Come spiegano gli esperti dalla Società Italiana di Urologia Oncologica (SIUrO), “la sorveglianza attiva consiste nel monitoraggio del tumore della prostata a rischio di progressione basso e molto basso attraverso il dosaggio del PSA, la visita e la ripetizione periodica delle biopsie prostatiche”3. L’obiettivo principale di questo approccio è evitare trattamenti quali la chirurgia o la radioterapia che, per quanto efficaci, non sono certo privi di effetti collaterali, tra i quali anche impotenza o incontinenza urinaria. Attenzione però, non tutti i pazienti e non tutti i tumori possono evitare il trattamento! La condizione necessaria perché si possa prendere in considerazione una strategia di attesa è che il tumore sia a basso rischio, ovvero che la probabilità che la malattia continui a crescere o cresca in modo rapido tanto da mettere a rischio la vita del paziente sia remota. Inoltre, è importante essere certi che, in caso di necessità, siano disponibili trattamenti efficaci da utilizzare interrompendo la sorveglianza attiva1,3.
In cosa consiste, in pratica, la sorveglianza attiva? I protocolli impiegati a livello internazionale possono variare da Paese a Paese e anche da centro a centro, ma in linea generale comprendono la misurazione dei livelli di PSA e altri esami di controllo come l’esplorazione rettale, la biopsia prostatica o la risonanza magnetica multiparametrica1-4.
Ricordiamo infine che, anche se spesso sono utilizzati come sinonimi, in realtà sorveglianza attiva e vigile attesa non sono proprio la stessa cosa. Nella vigile attesa, spesso gli esami di controllo sono meno frequenti rispetto a quanto avviene con la sorveglianza attiva e l’approccio viene riservato a quegli uomini che hanno altre problematiche di salute che rendono complesso anche eseguire esami di controllo o a quelli che non vogliono essere sottoposti al trattamento1.
L’idea di non partire immediatamente con il trattamento in alcuni pazienti con tumore della prostata non è nuova. I primi protocolli che suggerivano questa possibilità risalgono alla seconda metà degli anni ’90 del secolo scorso, ma solo recentemente – grazie alla crescente mole di dati a sostegno di questo approccio – gli esperti hanno incluso sorveglianza attiva e vigile attesa nelle raccomandazioni di trattamento per i tumori a basso rischio5. Fino a una decina di anni fa, infatti, la maggior parte degli uomini con tumore prostatico di basso grado veniva trattato con chirurgia o radioterapia. Sembra però che la situazione stia cambiando: secondo i dati disponibili, per esempio, negli Strati Uniti la percentuale di pazienti seguiti con sorveglianza attiva è passato dal 10% del 2010 a circa il 60% del 20215.
Attualmente non disponiamo di molti studi di confronto diretto tra la sorveglianza attiva e il trattamento (chirurgia o radioterapia), ma i dati oggi disponibili non suggeriscono un vantaggio per chi viene trattato immediatamente rispetto a chi, invece, decide di optare per la sorveglianza2. Una recente revisione della letteratura ha mostrato che il rischio di metastasi da cancro alla prostata varia dallo 0,1% all’1% a 10 anni in pazienti sotto sorveglianza attiva e il rischio di mortalità per il tumore dallo 0% all’1,9% a 10 anni, ma nella maggior parte degli studi inclusi nell’analisi tali rischi a 10 anni rimanevano al di sotto dello 0,5%6.
Inoltre, gli esperti sono ragionevolmente certi che, una volta iniziato un programma di sorveglianza, i controlli periodici ravvicinati sono in grado di identificare un eventuale crescita del tumore e di intervenire tempestivamente senza mettere a rischio il paziente2,4.
In Italia, molti centri partecipano al protocollo di sorveglianza attiva PRIAS, sotto l’egida SIUrO (studio SIUrO PRIAS ITA), uno studio osservazionale internazionale che coinvolge migliaia di uomini seguiti con questa strategia di sorveglianza3.
La sorveglianza attiva non è sempre facile. Se da un lato, infatti, permette di evitare gli effetti collaterali di alcuni trattamenti, dall’altro obbliga il paziente e seguire in modo scrupoloso le raccomandazioni di follow up e di sottoporsi frequentemente a esami di controllo.
Non mancano dati che mostrano come una parte dei pazienti in sorveglianza attiva non si attenga alle indicazioni dei medici o non sia ben informata su cosa fare7.
Medici di medicina generale e specialisti concordano sul fatto che un paziente informato è un paziente che più facilmente seguirà le indicazioni per gli esami di controllo: per arrivare a questo traguardo la comunicazione tra medico e paziente e tra i diversi medici coinvolti nella cura è di primaria importanza7.
Da non dimenticare poi il fatto che l’idea di “convivere con un tumore” per alcuni pazienti può essere un’esperienza stressante8. I dati mostrano che ogni persona è un caso a sé: alcune hanno bisogno di un minimo supporto, mentre per altre l'idea è talmente angosciante da portare a scegliere un trattamento radicale, con tutte le sue conseguenze. Ansia, depressione e incertezza non sono rare quando viene proposto un programma di sorveglianza attiva, e possono riguardare anche i familiari di chi riceve la diagnosi8. Parlare a fondo con il proprio medico di tutti i dubbi e le paure è il primo passo per compiere la scelta giusta e vivere al meglio il proprio percorso di cura.