Obiettivi di cura e misure salvavita: una conversazione necessaria

LEUCEMIA MIELOIDE ACUTA

Obiettivi di cura e misure salvavita: una conversazione necessaria

In oncologia, tra medico e paziente, tra team di cura e caregiver, ci sono tante conversazioni “difficili” che si devono comunque sostenere. Alcune volte si tende a rimandarle, per diversi motivi. E una di quelle che avviene spesso troppo tardi è…

» In oncologia, tra medico e paziente, tra team di cura e caregiver, ci sono tante conversazioni “difficili” che si devono comunque sostenere. Alcune volte si tende a rimandarle, per diversi motivi. E una di quelle che avviene spesso troppo tardi è quella in cui l’oncologo affronta con il paziente colpito da leucemia mieloide acuta ad alto rischio i reali obiettivi di cura che si vogliono o possono raggiungere attraverso i trattamenti disponibili e le scelte del paziente stesso rispetto alle misure salvavita che desidera o che è disposto ad accettare.

Questa conversazione fondamentale avviene, nella maggioranza di casi, nelle ultime due settimane di vita del paziente. Questo è quanto emerge da uno uno studio presentato all’annuale incontro dell’American Society of Hematology (ASH) lo scorso dicembre e realizzato dai ricercatori del Massachusetts General Hospital, guidati da Hannah R. Abrams. A convincere il medico ad avviare queste conversazioni è stato spesso il peggiorare delle condizioni del paziente fino a una situazione in cui le misure intensive di sostegno vitale sono state ritenute inutili.

Queste discussioni dovrebbero avvenire prima, perché è importante che un paziente abbia questa possibilità quando ancora è in grado di vagliare al meglio le opzioni disponibili e affermare chiaramente le proprie preferenze. Spesso, invece, si aspetta tanto da non poterle neanche avere più: secondo i ricercatori appena il 60% dei pazienti ha partecipato alla modifica finale dello “stato del codice”, termine utilizzato per indicare quali tipi di interventi salvavita un paziente è disposto a ricevere. In uno stato di codice completo si impiegano tutte le possibili misure salvavita; in uno di codice limitato si sceglie di non rianimare o intubare un paziente, pur proseguendo il trattamento di routine; in uno stato di sole misure di comfort si opera per ridurre il dolore e il disagio del paziente.

Questo significa che il restante 40% dei pazienti esaminati nello studio era in condizioni già troppo gravi per poter discutere tali opzioni o esprimere preferenze. In poco più di un quarto dei casi (26,3%) questa conversazione è avvenuta nell’unità di terapia intensiva o nel pronto soccorso. In circa il 17% dei casi, ci si è decisi ad affrontare queste questioni solo subito prima di un importante cambiamento nelle opzioni salvavita applicabili, quindi nel momento di un forzato cambio di codice. Questi cambiamenti vengono chiamati in gergo transizioni sanitarie.

Sebbene la maggior parte dei pazienti sia andata incontro a una transizione sanitaria, il valore mediano di giorni trascorsi tra la diagnosi e la prima transizione (tra codice completo e limitato) è stato di 212 giorni, ed appena di 2 giorni tra l’ultima transizione (a solo stato di comfort) e la morte del paziente.

Secondo Abrams, avere discussioni proattive sul fine vita durante le visite ambulatoriali di routine potrebbe aiutare i pazienti a comprendere la loro prognosi ed essere più coinvolti nelle decisioni riguardo il loro fine vita. Allo stesso tempo è utile ai medici per allineare le loro strategie di trattamento con i desideri e le preferenze del paziente e non far ricadere decisioni difficili sulle spalle di familiari, già gravati dalla situazione.

«Spero che la condivisione di questo studio incoraggi sia i medici che i pazienti a sollevare prima questa conversazione, il che potrebbe aiutare più pazienti a essere coinvolti nelle decisioni di fine vita», ha affermato Abrams. Inoltre, questa non è una conversazione da affrontare solo all’inizio ma andrebbe ripresa più volte durante il percorso di cura, poiché le preferenze delle persone possono cambiare nel tempo: «I pazienti spesso sentono di voler affrontare nuovamente questo argomento con i loro medici, ma non sono sicuri di come farlo», ha concluso Abrams.

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