Caregiver, affrontare il fine vita

LINFOMA A CELLULE MANTELLARI

Caregiver, affrontare il fine vita

In Italia molto spesso il caregiver principale di un paziente oncologico anziano è un caregiver cosiddetto “informale”

In Italia molto spesso il caregiver principale di un paziente oncologico anziano è un caregiver cosiddetto “informale”: si tratta di partner, figli o altri familiari. Questo vuol dire che ci si può trovare a dover fare i conti con la fase terminale della malattia e la scomparsa prematura di una persona amata, vivendo già in una condizione difficile, stressante e dolorosa. Non solo: si trova anche improvvisamente privato della propria identità, privato del ruolo che ha assunto per mesi, se non addirittura anni. Simili esperienze e transizioni hanno ripercussioni a lungo termine che non bisogna sottovalutare e che richiedono attenzione, cure e supporto per chi si trova a viverle.

Compiere scelte difficili
Il caregiver principale di un paziente che si trova nelle fasi terminali della malattia, oltre al carico emotivo e fisico immenso di prendersi cura di una persona amata che sta scivolando via, deve prendere decisioni complesse. Per esempio, quando sono state esaurite le possibili linee di trattamento, quando non ci sono speranze di miglioramento o quando è il paziente stesso a chiederlo, il caregiver deve dare il consenso all’interruzione dei trattamenti.

Deve per esempio decidere se e quando cominciare un percorso di cure palliative; quali misure salvavita consentire; se ricorrere al ricovero in un hospice o alle cure domiciliari. È vero che queste scelte sono spesso portate avanti con il team di cura, ma il peso maggiore ricade sul caregiver, che in molti casi - anche quando alcune scelte sono state concordate con il paziente - si trova a doverle giustificare con altri familiari.

È possibile fare qualcosa per rendere meno difficili queste decisioni?

1) è di supporto per il caregiver - e anche per il paziente – anticipare queste conversazioni e cominciare la pianificazione delle fasi terminali per tempo, quando il paziente è ancora in grado di esprimere la propria volontà;
2) è importante comunicare in anticipo al medico curante le scelte in merito alle misure salvavita e ai trattamenti, per poter valutare le opzioni future su una base già condivisa;
3) è fondamentale essere onesti rispetto a quello che si può e si è disposti a fare: per esempio, se la scelta di un hospice è la migliore sia per il paziente sia per il caregiver o se le cure domiciliari sono un’opzione realizzabile senza gravare in maniera insostenibile sul caregiver;
4) può essere di aiuto un supporto psicologico: ci si può sentire sopraffatti dalle responsabilità, vedere messo in discussione il ruolo familiare (partner, figlio, fratello…) rispetto a quello di caregiver, si può non riuscire a stare vicino al paziente come si crede questi avrebbe bisogno, essere incapaci di gestire le emozioni.

Nuovi compiti, a cui si è impreparati
Prendersi cura di una persona amata nelle fasi terminali della malattia è diverso dal farlo nelle fasi iniziali: i bisogni fisici, medici, pratici, ma anche emotivi sono profondamente diversi. Spesso, tuttavia, mancano strutture e strumenti di supporto per i caregiver. Alcuni caregiver riportano una mancanza di comunicazione efficace con medico e team di cura, mancato supporto nella gestione del dolore, mancato supporto psicologico.

Per quanto riguarda i bisogni fisici e medici, il team medico ha un ruolo fondamentale nella cura del paziente, ma anche - sebbene non sia un ruolo formale o esplicito - nell’educare il caregiver.
Tuttavia, spesso questo importante aspetto viene trascurato. Porre domande, farsi ripetere i passaggi di alcune procedure, annotare alcuni compiti anche semplici e contatti telefonici di emergenza è essenziale. Soprattutto quando la situazione è tale da richiedere trattamenti per il dolore e altri sintomi, o quando possono verificarsi cambiamenti improvvisi.

Per quanto riguarda i bisogni emotivi del paziente, ci si può avvalere della consulenza di un esperto, di uno psiconcologo formato. Lo stesso vale per i bisogni fisici, emotivi e psicologici del caregiver, che sono spesso trascurati. È, invece, necessario non perdere di vista il proprio benessere e la propria salute ed è ancora più importante appoggiarsi alla propria rete di supporto per la gestione degli altri aspetti della vita quotidiana: logistica, burocrazia e comunicazione con il resto della famiglia o della cerchia di amici che chiedono notizie. Così come è importante prendersi del tempo per sé stessi e per i propri bisogni. Questo non è sempre facile, anche perché talvolta il caregiver sente di voler fare tutto lui, sia per sentirsi utile, impegnato, sia come reazione alla difficoltà emotiva del momento e alla sensazione di fine e di perdita.

La perdita del proprio ruolo
Il ricovero in hospice anticipa da un lato la perdita del ruolo di caregiver primario, dall’altro può, tuttavia, permettere di sfruttare al meglio il tempo rimasto insieme paziente e di ricevere maggiori informazioni sulla gestione del fine vita.

Il senso di perdita del ruolo diventa ovviamente più forte nel periodo successivo al fine vita, quando si va a sommare al lutto, e spesso ad aggravare il peso dell’assenza della persona amata. Ognuno vive ed esprime il lutto in una maniera molto personale e con un diverso impatto fisico, emotivo, cognitivo e comportamentale.

Da un punto di vista emotivo è comunque normale provare sentimenti di tristezza, rabbia, senso di colpa, ansia, solitudine, confusione, ma anche sollievo. Sul fisico questa fase può causare un senso di vuoto, mancanza di appetito e di fiato, mancanza di energie, stanchezza, debolezza. Si possono sperimentare momenti di incredulità, confusione, incapacità di concentrarsi, disturbi del sonno, desiderio di isolarsi, pianto improvviso.

Se dopo qualche tempo questi impatti non accennano ad affievolirsi, se non si riesce a trovare sollievo, se prendono il sopravvento e impediscono le attività quotidiane è importante chiedere l’aiuto di un esperto. Alcuni studi mostrano che solo 10 mesi circa dopo a morte, il dolore, la qualità della vita e la salute generale dei caregiver ritornano a uno stato normale.

Una piccola percentuale di caregiver, circa l’8%, può sperimentare un'angoscia da dolore persistente e pervasiva chiamata Complicated Grief o Prolonged Grief Disorder (PGD).

La PGD è associata ad un aumentato rischio di suicidio, malattia grave, problemi del sonno, difficoltà sociali o sul luogo di lavoro, diminuzione della qualità di vita. Per alcuni caregiver è una situazione che può prolungarsi anche per alcuni anni. Per questo motivo sarebbe importante che i caregiver rimanessero in contatto con il team di cure palliative che ha avuto in cura il paziente, per valutare il proprio stato di salute fisica ed emotiva e, in caso, farsi aiutare. Non sempre, infatti, questo tipo di valutazione e supporto viene offerto al caregiver, ma potrebbe davvero fare la differenza.

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Bibliografia e Fonti:

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