Con il protrarsi della pandemia, la condizione psicologica dei lavoratori è peggiorata, portando a delle ripercussioni nella quotidianità lavorativa e, nelle forme più gravi, l’acuirsi dei sintomi della depressione in chi già ne soffre.
Depressione e lavoro sono ad oggi un connubio sempre più rilevante poiché le conseguenze della patologia, che si riversano anche nell’ambito lavorativo, rappresentano una problematica che aumenta di anno in anno.
Come già descritto in un precedente articolo (“Depressione da lavoro: riconoscerla e combatterla per una carriera sana”), la vita lavorativa è da tempo una tra le principali cause di ansia e depressione. Seppur il lavoro, come confermato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, possa costituire un importante contributo al benessere psicologico della persona, può al contempo rappresentarne una minaccia, a causa di una pluralità di fattori, tra cui un eccessivo stress o la condizione di disoccupazione.
È importante sottolineare che gli effetti della depressione sulla persona che ne è affetta incidono sensibilmente sulla performance lavorativa, scatenando comportamenti quali perenne senso di colpa, deprezzamento di sé, isolamento e, dunque, incapacità di comunicare e di lavorare in gruppo. Tutte queste circostanze non fanno altro che aggravare le condizioni di disagio ed inadeguatezza sul posto di lavoro.
Tenendo in considerazione questo scenario, un ruolo importante è assunto ancora una volta dal Covid-19. Osservando i dati sulla depressione in Italia, si può infatti notare un drastico peggioramento dei numeri legati alla patologia: 150mila casi in più e 85mila morti che, al 20 settembre 2020, superano quelli registrati negli ultimi 5 anni. Tra le principali cause si ritrovano gli effetti della prima e della seconda ondata di Covid-19, della conseguente crisi socioeconomica, e un peggioramento dello stato psico-emotivo sul luogo di lavoro caratterizzato da un crescente senso di fragilità e insicurezza.
Dopo il termine dell’emergenza sanitaria, si fanno ora sentire gli effetti della cosiddetta “sindrome Post-Covid” o “Long Covid”. Per alcuni soggetti, infatti, l’infezione da COVID-19 può scatenare sintomi che si protraggono per settimane o addirittura mesi dopo il termine della fase acuta della malattia, impedendo al soggetto di performare al meglio sul posto di lavoro e, dove presente, acuendo i sintomi della depressione.
Tra i sintomi a lungo termine della sindrome post-Covid riportati più frequentemente, in aggiunta ad affaticamento e un senso di stanchezza molto marcato, vi è una condizione nota come “brain fog” (nebbia mentale). Si tratta di un effetto neurocognitivo, di solito temporaneo ma ricorrente, legato a un complesso di sintomi che possono essere associati a diverse patologie: depressione, malattie neurodegenerative, disturbi psicologici. Questa condizione comporta difficoltà di concentrazione e perdita di memoria, vertigini e mal di testa e, secondo le stime, si manifesta in circa il 10% dei lavoratori. La sindrome da post-Covid può rappresentare inoltre un'esperienza traumatica, ad esempio nel caso di un lungo ricovero, per lavoratori in precedenza molto attivi e vigorosi, e può indurre in questi soggetti un senso di frustrazione che può sfociare in uno stato d’ansia e, nelle forme più gravi, in depressione.
Considerando quindi l’impatto della pandemia di Covid-19 sull’aspetto psicologico e sulla vita lavorativa è richiesto sempre più un intervento urgente e mirato da parte dei datori di lavoro. Per permettere un miglioramento della qualità della vita lavorativa, sarà infatti necessario il contributo delle aziende, imprescindibile per consentire di riscrivere le modalità e la qualità del lavoro nel periodo post-pandemico. Sarà infatti richiesto un confronto sempre più costante tra dipendenti e datori di lavoro, al fine di delineare insieme le priorità attuali dei dipendenti: work-life balance, flessibilità e salute mentale.