La Storia di Roberta

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La Storia di Roberta

Avevo diciotto anni ed ero magra, magrissima. Così magra che non mi reggevo in piedi e i miei genitori pensavano fossi anoressica. In realtà non era certo un disturbo dell’alimentazione quello che mi impediva di mangiare, e a volte persino di bere. Era invece una malattia infiammatoria cronica dell’intestino. Ma sembrava che nessuno mi credesse: tutti pensavano che io facessi dei sacrifici a tavola per mantenere “la linea”.

Alla fine, inevitabilmente, è arrivato il ricovero: non era più pensabile rimandare questo momento, visto che continuavo a perdere peso. Arrivata in ospedale, sono stata immediatamente inviata al reparto di ematologia, perché i valori anomali delle analisi del sangue facevano pensare addirittura a una leucemia. È stato un trauma, davvero. Per fortuna l’ematologa che mi seguiva aveva dei dubbi, e mi ha inviata al reparto di gastroenterologia per fare una eco-addome. È stato questo esame a fugare ogni dubbio: avevo la malattia di Crohn.

L’impatto con la malattia è stato durissimo. Non ero mai entrata in un ospedale prima di allora, e di colpo mi trovavo invece a letto, in una stanza con altri pazienti, con la prospettiva di restarci a lungo. Dopo tre mesi, finalmente ho ricominciato a prendere un po’ di peso e a stare meglio. Ho avuto la fortuna di imbattermi in una équipe di gastroenterologia di alto livello, tanto che dopo diversi tentativi di terapie che non funzionavano, nel giro di qualche mese hanno trovato la cura adatta a me.

Adesso ho 28 anni, e da 8 seguo la stessa terapia. Andrebbe tutto abbastanza bene, se non fosse che la pandemia ha davvero cambiato le carte in tavola. Per colpa del coronavirus, il reparto che sin dall’inizio ha gestito la mia malattia non mi segue più come prima, non ho più un gastroenterologo di riferimento nel reparto (come ho avuto fino al 2020), e di conseguenza non so bene a chi rivolgermi in caso di emergenza, per esempio quando ho dei sintomi che non riesco bene a interpretare. Questa cosa mi destabilizza molto, perché penso che per noi pazienti con MICI sia fondamentale avere uno specialista che conosce la storia clinica a cui chiedere aiuto. Insomma, mi piacerebbe poter pensare “se mi sento male chiamo il mio gastroenterologo”, e invece sono costretta a pensare ““se mi sento male vai a capire quanto devo aspettare affinché qualcuno possa trovare il tempo di darmi una risposta, e chissà chi è di turno in reparto”.

Ovviamente oltre ai disagi organizzativi dell’ospedale ci sono anche quelli personali.

Se ho in programma qualche attività devo sempre avere un bagno nelle vicinanze, perché la malattia è imprevedibile. E tutti questi disagi messi insieme fanno sì che a volte io non abbia più voglia di uscire di casa. Ma il peso più grande è dato dal fatto di sentirmi incompresa: chi non ha una MICI non potrà mai capire come ci si sente ad avere tutti questi problemi. E questa solitudine mi sembra a volte più pesante della malattia stessa.

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