Le probabilità di successo sono influenzate da diversi fattori, tra cui il tipo di tumore e il suo stadio, il tipo di trapianto (autologo, allogenico, aploidentico), l’origine delle cellule trapiantate (sangue, midollo, sangue da cordone ombelicale), l’età del paziente e i trattamenti che ha ricevuto in precedenza1.
Diversi studi hanno dimostrato che anche lo stato nutrizionale – ossia l’equilibrio tra l’apporto di nutrienti e il loro utilizzo per le necessità dell’organismo – prima e durante il trapianto incide sulla prognosi e sul rischio di complicanze1. È quindi potenzialmente possibile aumentare le chance di successo di questa terapia salvavita attraverso interventi nutrizionali.
Il TCSE è preceduto dalla fase di “condizionamento”, ossia dalla somministrazione di chemioterapia o chemioradioterapia per preparare il ricevente ad “accogliere” le cellule del donatore. Questa fase è fisicamente impegnativa e i pazienti dovrebbero affrontarla nelle migliori condizioni possibili1. Ci sono studi che mostrano che, se un paziente che si sottopone a TCSE è malnutrito, ha un rischio più alto di andare incontro a complicanze immunologiche e infettive, richiede un ricovero ospedaliero più lungo e ha minori probabilità di sopravvivenza2i. In uno studio condotto su oltre 4.200 pazienti, quelli malnutriti e sottopeso avevano un rischio di morire più che doppio e una probabilità di ricaduta di malattia significativamente più alta rispetto ai pazienti normopeso1.
Una revisione sistematica della letteratura ha rivelato che nella maggior parte dei casi lo stato nutrizionale dei pazienti è relativamente buono al momento del trapianto, ma si deteriora successivamente1. I farmaci utilizzati nel TSCE (tra cui la chemioterapia di condizionamento, gli steroidi, gli immunosoppressori e gli antibiotici) hanno effetti tossici diretti sul tratto gastrointestinale, che si manifestano con nausea, vomito, diarrea e mucosite; questi sintomi, assieme a un’alterata percezione dei sapori e degli odori, possono portare a un’avversione verso il cibo e a difficoltà nell’alimentarsi2. Anche complicanze come le infezioni o la malattia da rigetto verso l’ospite (GVHD, dall’inglese graft-versus-host disease) – una reazione immunitaria in cui le cellule del donatore attaccano i tessuti e gli organi del ricevente – possono interferire con l’assunzione e l’assorbimento dei nutrienti necessari1. Molti pazienti vanno incontro a una perdita di peso dell’ordine del 5-10%, in particolare nei primi 40 giorni dopo il ricovero per il trapianto1,2.
La Società Europea per la Nutrizione clinica e metabolismo (ESPEN) raccomanda che venga sempre effettuata una valutazione dello stato nutrizionale del paziente che deve sottoporsi a TCSE per identificare i pazienti con problemi nutrizionali (già malnutriti o a rischio di malnutrizione) che richiedono un intervento terapeutico2. Lo stato nutrizionale dovrebbe essere monitorato anche durante il follow-up del paziente trapiantato2.
Gli esperti non hanno ancora raggiunto un accordo su quale sia il metodo migliore per accertare lo stato di malnutrizione; si possono usare misure antropometriche (es. peso corporeo, indice di massa corporea [BMI, dall’inglese body mass index]), parametri di laboratorio (es. livelli di transferrina), questionari (es. Mini Nutritional Assessment [MNA]) e test funzionali (es. misurazione della forza di presa della mano). Data la semplicità, i parametri più usati sono la perdita di peso e di BMI, sebbene da soli non siano davvero sufficientemente informativi perché possono essere falsati dalla ritenzione di liquidi e perché non forniscono informazioni sulla composizione corporea (quantità di massa magra e di massa grassa) che sembra invece essere un indicatore importante di sopravvivenza1,3.
Al paziente malnutrito o a rischio malnutrizione viene offerto supporto nutrizionale sotto forma di supplementi nutrizionali orali (alimenti a fini medici appositamente formulati per aumentare l’apporto di calorie, proteine o altri nutrienti), nutrizione enterale (NE) o nutrizione parenterale (NP). Se un paziente non riesce ad alimentarsi in modo adeguato per bocca, le linee guida dell’ESPEN raccomandano di ricorrere alla NE – in cui si somministrano i nutrienti direttamente nello stomaco o nell’intestino – e di riservare la NP – in cui i nutrienti sono somministrati direttamente in vena – ai casi in cui il sondino non è tollerato o posizionabile o in cui il sistema gastrointestinale è gravemente compromesso (per esempio, pazienti con vomito intrattabile o dolore legato alla mucosite oppure pazienti con GVHD che interessa il tratto gastrointestinale); uno dei motivi principali per cui, laddove possibile, si preferisce la NE alla NP è che il catetere utilizzato per la NP può contaminarsi facilmente con il rischio che il paziente contragga un’infezione1,4.
E dopo il trapianto, quali sono i cibi e le sostanze che il paziente dovrebbe assumere o evitare? Sono stati condotti alcuni studi sull’uso di integratori di antiossidanti o agenti immunomodulanti (es. glutammina, fibre, acidi grassi omega-3), tuttavia, non ci sono prove sufficienti a sostegno della loro utilità nel contesto del TCSE3.
Dato che numerose ricerche hanno mostrato che il microbiota intestinale – l’insieme dei microrganismi che vivono nell’intestino – influenza la sopravvivenza post-trapianto, l’insorgenza di GVDH di grado severo e l’instaurarsi di infezioni fatali5, si sta studiando se sia possibile modulare la composizione e l’attività metabolica del microbiota intestinale, attraverso la somministrazione di probiotici o prebiotici, affinché svolga un’azione protettiva contro le complicanze del TCSE2. Questi studi sono solo agli albori e non ci sono ancora prodotti o protocolli di dimostrata sicurezza ed efficacia.
Molti potrebbero avere sentito parlare della “dieta neutropenica” o “dieta a bassa carica microbica”, considerata tassativa per i pazienti sottoposti a TCSE da quando è stata messa a punto negli anni Ottanta4. La dieta neutropenica esclude gli alimenti che più facilmente sono contaminati da microbi – come la frutta e la verdura cruda, la carne e il pesce crudi o poco cotti, i latticini non pastorizzati, il pesce affumicato a freddo e i prodotti a base di cereali crudi – per ridurre il rischio che i pazienti, fortemente immunodepressi, contraggano un’infezione attraverso il cibo1,4. Quando in anni recenti si è andati ad analizzare criticamente gli studi clinici in cui sono stati esplorati i benefici della dieta neutropenica è emerso che non offre un vantaggio in termini di riduzione della mortalità, ma pare persino aumentare, anche se di poco, il rischio di infezioni1. Gli esperti dell’ESPEN, visto che i dati disponibili non provano che la dieta neutropenica abbia effetti favorevoli, non ne raccomandano l’uso6.
È assolutamente ragionevole evitare il consumo di alimenti “pericolosi” come i formaggi con la muffa, ma, utilizzando sempre buone pratiche igieniche nella manipolazione degli ingredienti e nella preparazione dei pasti (per esempio, lavare le mani, cuocere gli alimenti a temperature adeguate, lavare e/o pelare i vegetali crudi), non c’è motivo di imporre una dieta eccessivamente restrittiva, che rischia di essere poco varia e fornire un apporto inadeguato di nutrienti, di essere poco piacevole al gusto portando il paziente a mangiare di meno, di creare difficoltà a chi cucina e, in definitiva, di peggiorare la qualità della vita del paziente sottoposto a trapianto2,7.
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