Quando la depressione impedisce di svolgere il proprio lavoro, non si è abbandonati a se stessi: scopriamo le possibilità messe a disposizione.
La depressione è una patologia che ha pesanti ricadute non solo su chi ne è affetto ma anche su famiglie e mondo del lavoro. Non a caso, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, entro il 2030, proprio la depressione sarà la prima causa al mondo di giornate di lavoro perse per disabilità, superando il primato storico delle malattie cardiovascolari. Sempre l’OMS ha stimato che ogni anno si perdano 12 miliardi di giornate lavorate a causa di depressione o ansia, con un costo per l’economia globale di quasi mille miliardi di dollari 1. La depressione maggiore è riconosciuta dalla legge come condizione invalidante e il lavoratore che ne è affetto - ed è certificato dal medico - può godere di un periodo di astensione dal lavoro retribuito. La malattia, d’altronde, ha un impatto così significativo sulla vita quotidiana che, per chi ne soffre, andare al lavoro può diventare estremamente difficile e persino impossibile. Ecco che allora può rendersi necessario prendere un periodo di assenza per curarsi e recuperare. Come si fa, nel concreto, a richiedere un astensione retribuita e cosa comporta, in questi casi, l'assenza dal posto di lavoro?
Regolamentata dalla Legge n.53/2000 (“Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città”2), l’aspettativa è un periodo di sospensione temporanea del rapporto di lavoro, volta a conciliare la posizione di lavoratore subordinato e il verificarsi di particolari situazioni di natura personale/familiare o l’esistenza di impegni di rilevanza pubblica (ad esempio, cariche pubbliche elettive o sindacali, funzioni presso seggi elettorali). Questa possibilità può essere concessa al lavoratore per un periodo di tempo più o meno lungo, con diritto alla conservazione del posto di lavoro e, generalmente, con la sospensione della retribuzione. L’aspettativa sul lavoro, che ha una durata massima di due anni - anche frazionati - nell’arco della vita lavorativa del soggetto, può essere richiesta in base ai singoli CCNL (contratti collettivi nazionali) dai lavoratori dipendenti, mentre per i lavoratori autonomi non è prevista. Le forme di aspettativa retribuita riguardano, oltre ai casi di assistenza familiare a persone con grave disabilità e limitate altre circostanze, i casi di malattia. Contrariamente al disagio personale, ovvero un malessere non accompagnato da sindrome depressiva, che dà diritto a richiedere un’aspettativa non retribuita per gravi motivi personali, la depressione è una malattia e, come tale, quando viene diagnosticata dal medico e giudicata un ostacolo per le attività lavorative, gode delle stesse garanzie previste per altre patologie e garantisce al lavoratore il diritto all’astensione dal lavoro con retribuzione.
La depressione, come detto, è una malattia invalidante. Chi soffre di questa patologia può astenersi dal lavoro secondo tre modalità consentite per legge:
Nel primo caso, il lavoratore può usufruire della astensione dal lavoro per motivi di salute, con diritto alla retribuzione, esattamente come accade con altre patologie. È indispensabile una dettagliata certificazione redatta dal medico curante che attesti effettivamente la temporanea incapacità di svolgere la professione. Nel secondo caso, se il lavoratore non ha una diagnosi di depressione maggiore ma sta attraversando un periodo di disagio personale, può richiedere un periodo di aspettativa dal lavoro, della durata massima di due anni, con diritto alla conservazione del posto di lavoro ma non alla retribuzione. Nell’ultima ipotesi, se la condizione depressiva del lavoratore dovesse rendere impossibile il rientro al lavoro, allora è possibile richiedere una indennità per invalidità civile. Le patologie psichiche (e, tra queste, la depressione maggiore) e la relativa percentuale d’invalidità trovano apposito spazio in specifiche tabelle ministeriali in quanto malattie che nei casi più gravi possono rappresentare un vero e proprio handicap. La depressione diventa invalidante nella misura in cui comporta una riduzione o un'incapacità completa di lavorare a pieno regime, determinando serie difficoltà nell’integrazione, nelle relazioni o nell’apprendimento che diventano veri e propri ostacoli per la sua crescita sociale e individuale. È la stessa INPS ad indicare nel documento “Linee guida per accertamento degli stati invalidanti”3 che la depressione maggiore può portare a un'invalidità dal 61% all'80% (se si tratta di un disturbo ricorrente ma moderato), ma può arrivare anche al 100% in caso di deficit grave. Sempre l’INPS, nello stesso documento, indica anche i criteri per la valutazione della malattia: “in ambito medico legale - si legge - la valutazione dovrebbe essere di tipo funzionale, in modo da individuare con la maggior precisione possibile l'incidenza della psicopatologia sulla capacità lavorativa generica del soggetto; e soprattutto dovrebbe essere basata su elementi obiettivi, tendenzialmente riproducibili e "misurabili" anche attraverso esami strumentali. In ambito psichiatrico, tuttavia, la "soggettività" del paziente è l'elemento fondamentale e la psicometria si avvale per lo più di scale di valutazione con items non obiettivi. La valutazione "classica" è solitamente di tipo nosologico e psicopatologico, ed è effettuata attraverso un colloquio clinico ed anamnestico, con l’obiettivo di definire una diagnosi secondo i criteri nosografici delle classificazioni internazionali del DSM-IV o dell'ICD9-CM”.
Facendo un breve riepilogo: se la depressione è certificata si può godere di tutti i diritti dell’astensione dal lavoro per motivi di salute, tra cui, la retribuzione; diversamente, l’aspettativa spetta comunque ma senza retribuzione. Se il soggetto che soffre di depressione non riesce, purtroppo, a superare i suoi problemi di salute e quindi persiste la sua incapacità di tornare a lavoro può richiedere un'indennità per invalidità civile.
La prima cosa da fare quando si accusano sintomi depressivi per un periodo di tempo prolungato e, conseguentemente, si nota una forte riduzione della capacità di portare a termine le mansioni professionali, è avvisare un superiore e dare preavviso secondo le modalità e i termini stabiliti dal regolamento aziendale e dal contratto collettivo (tempi e modi per comunicare la malattia possono infatti essere diverse in base ai CCNL di riferimento). Per poter godere di un periodo di assenza giustificata dal lavoro, è poi indispensabile produrre un certificato di malattia - inviato per via telematica, direttamente all’INPS dal medico o dalla struttura sanitaria pubblica che lo rilascia - che attesti effettivamente la temporanea incapacità di svolgere la professione. Deve contenere una diagnosi e una presunta durata della prognosi clinica di guarigione. La durata dell’astensione dal lavoro è quindi indicata nel certificato stesso, così come avviene per altre patologie, mentre il cosiddetto periodo di comporto - ovvero il tetto massimo del totale delle assenze per malattia - è stabilito dai CCNL ma in genere prevede una durata in base all’anzianità di servizio. La malattia per depressione ha quindi una durata massima pari al periodo di comporto, superato il quale decade il diritto di conservazione del posto di lavoro.
Riassumendo:
Un dipendente che non si reca sul posto di lavoro in quanto malato ha l’obbligo della reperibilità, ovvero di rimanere in casa in determinate fasce orarie così da permettere lo svolgimento di una eventuale visita fiscale da parte dell’Inps, e può uscire solo in determinati orari e purché i suoi comportamenti siano compatibili col proprio stato di malattia. Questo, tuttavia, non è applicabile al dipendente affetto da depressione. Una sentenza della Cassazione, infatti, ha dichiarato illegittimo il licenziamento del lavoratore in malattia per depressione, sorpreso in momenti ludici e di svago. La Corte ha chiarito che il lavoratore in malattia a cui è stato diagnosticato un disturbo depressivo, se esce di casa per distrarsi, non tiene una condotta incompatibile con il suo stato di malattia e soprattutto non pregiudica la guarigione e il suo rientro al lavoro. Nella sentenza n. 9647/20214 si specifica quindi che “anche alla stregua del concetto di malattia desumibile dall’art. 32 Costituzione (…)”, questa “va intesa non come stato che comporti la impossibilità assoluta di svolgere qualsiasi attività, ma come stato impeditivo delle normali prestazioni lavorative del dipendente” che però potrebbe essere compatibile con altre attività. Attività, per altro, che nel caso di specie potrebbero favorire il processo di guarigione.
Può capitare che la depressione sia diretta conseguenza di un forte stress lavoro correlato: in questo caso, una recente sentenza della Cassazione ha stabilito l’estensione dell’indennità di malattia professionale, anche per i casi di ansia e depressione5. Il Tribunale ha preso in esame il caso di un lavoratore il cui medico aveva accertato che lo sviluppo della patologia era dovuto alla situazione lavorativa, obbligando l’Inail al pagamento dell’indennità perché, di fatto l’ente non può distinguere tra malattie fisiche e psichiche, ma deve riconoscere una copertura assicurativa in entrambi i casi. Pertanto, anche nei casi di ansia e depressione, purché sia dimostrato il nesso causale con l’attività lavorativa, l’Inail è tenuto a erogare al lavoratore un contributo economico, a partire dal quarto giorno di assenza fino alla guarigione.
Organizzazione Internazionale del Lavoro
Ordinanza n. 29611 dell’11 ottobre 2022
Governo Italiano - Dipartimento per le politiche della famiglia
I.N.P.S. - Linee guida per l’accertamento degli stati invalidanti
Ministero della sanità - DECRETO MINISTERIALE 5 febbraio 1992